Da oltre quarant’anni di distanza dalla sua tragica scomparsa, gli intellettuali d’Italia, e non solo, si interrogano sul profilo dell’intellettuale Pier Paolo Pasolini, cercando di restituire al pubblico dei lettori ed estimatori un’immagine che sappia coglierne peculiarità e contraddizioni, in una rappresentazione il più possibile fedele alla reale essenza del suo ‘Io’ di uomo e artista. Muovendo dalla passione giovanile per Pascoli e dalla più autentica ispirazione della poesia dialettale, passando per le querelle linguistiche con gli ‘intellettuali organici’; chi era Pier Paolo Pasolini? Il poeta del disagio esistenziale, l’intellettuale anticlericale e rivoluzionario che assisteva all’infrangersi di ogni possibilità di riscatto e di cambiamento della società, o il regista che voleva rappresentare l’uomo e le sue verità? Non sempre è possibile ripercorrere una lineare rappresentazione dell’‘Io’ dell’artista, che, tuttavia, nelle interviste che sono giunte sino a noi, ha saputo lasciarci frammenti significativi di sé e della sua ispirazione artistica. Nell’intervista del ’71 – effettuata dal giornalista Enzo Biagi –, Pasolini esprimeva il suo rapporto di amore-odio per la letteratura, che lui stesso apostrofava come ‘ossimoro’, che lo induceva a definire ogni cosa per opposizione, generando quel ‘contrasto insanabile’ che lo esponeva alle critiche e alle polemiche da parte degli intellettuali del suo tempo.
Sul piano esistenziale, Pasolini si definiva un ‘contestatore globale’ che aveva perso la fiducia nella società e nella rivoluzione, collocandosi come ‘anarchico apocalittico’ ai margini del suo tempo. Infatti, quando Biagi domandava a Pasolini quale mondo sognasse, l’artista ribadiva di non nutrire speranze per un mondo futuro, che altro non era che dolore e negazione di qualsiasi speranza. L’unica lotta possibile, chiariva Pasolini, era quella per ‘le verità parziali’ che si susseguivano di ora in ora. Da lì a poco, l’artista così avrebbe motivato il suo amore per il cinema e le scelte linguistiche, coerentemente con il suo sentire: “Ho voluto cambiare lingua abbandonando la lingua italiana, l’italiano; una forma di protesta contro la lingua e contro la società. Ma la vera spiegazione è che facendo il cinema, riproduco la realtà, quindi, sono immensamente vicino a questo primo linguaggio umano che è l’azione dell’uomo che si rappresenta nella vita e nella realtà”.
Il precursore e veggente Pasolini, nella stessa intervista, criticava la comunicazione di massa e quasi anticipava le problematiche legate al rapporto tra media e politica, che avrebbero infiammato i dibattiti successivi nell’Italia di Berlusconi e Renzi, leader mass-mediatici dei nostri tempi. Già nel ’71, Pasolini aveva intuito che lo ‘spettatore medio’ avrebbe subito il processo di ‘mercificazione e alienazione’, scaturito da una relazione impari con l’interlocutore mass-mediatico, poiché, chiariva l’intellettuale: “Le parole che cadono dal video, cadono sempre dall’alto”, in una dinamica di relazione che muove le mosse in un rapporto “da superiore a inferiore, che è, specificatamente, antidemocratico”; considerazione, quest’ultima, che non implicava riflessioni sulla difficoltà di comunicare, ma esprimeva solidarietà verso l’anello debole di quella parte di società poco dotata di strumenti critici per formulare adeguate considerazioni e, pertanto, altamente suggestionabile. A chiarire chi è Pasolini è – più e meglio di chiunque altro – l’artista stesso. Nell’intervista concessa in Francia a Philippe Bouvard, due giorni prima della prematura scomparsa, l’intervistatore chiese a Pasolini quale qualifica professionale preferisse: poeta, romanziere, sceneggiatore, attore, critico, regista. Con questa semplice risposta, l’artista si è definito con disarmante sincerità e schiettezza: “Nel passaporto scrivo semplicemente… scrittore”.
di Tiziana Santoro