La Croce che ha visto l’agonia di nostro Signore Gesù Cristo è da sempre considerata un simbolo della Cristianità, mentre in realtà all’origine era un simbolo prettamente pagano che simboleggiava il sole nello scorrere delle stagioni sulla terra. Mentre per quanto riguarda le origini di questa forma di supplizio, secondo gli storici prese avvio tra i popoli del vicino Oriente e sembra che non sia mai stata messa in pratica da Egizi e Assiri, mentre i Greci l’adottarono fuori dai loro confini, invece per quanto riguarda i Giudei venne introdotta, nel I secolo avanti Cristo, da Alessandro Ianneo. I documenti romani ne parlano in modo ufficiale soltanto dopo la conclusione delle Guerre Puniche e questo fa presupporre che nell’Urbe sia stata introdotta dopo il contatto coi Cartaginesi.
I popoli che praticarono la Crocifissione la considerarono una pena esemplare infamante e, in modo particolare, venne riservata agli schiavi, ai traditori della patria, ai ribelli, ai pirati. A Roma, dov’era indicata come supplizio servile, venne messa in uso nel periodo repubblicano soltanto per l’esecuzione degli schiavi, mentre nel Periodo Imperiale finirono in croce anche grandi malfattori. Nell’Urbe, la sola ipotesi di condanna alla crocifissione di un cittadino romano venne sempre considerata una grave offesa al diritto personale, tuttavia questo non ha potuto impedire a un civis di concludere i suoi giorni terreni sulla croce, nonostante l’appassionata arringa difensiva da parte del famoso Cicerone.
Considerando le variabilità che vennero applicate e le sue modificazioni procedurali che si sono verificate nel corso dei secoli, si è potuto ricostruire la sequenza degli eventi che andava sin dall’inizio della dichiarazione della condanna, fino alla morte sulla croce. L’imputato di un delitto ritenuto molto grave veniva portato nel Foro in presenza di un giudice e qui, dopo la sentenza, veniva, completamente, denudato per rendere pubblico il suo annullamento; quindi gli veniva collocata sulla schiena una barra di legno (furca) alla quale gli venivano legate le braccia allargate. La “furca” era all’origine il legno trasversale di un carretto agricolo con solo due ruote, ma nel caso che la famiglia a cui apparteneva lo stesso schiavo condannato non disponesse di questo carretto agricolo veniva utilizzata la barra con cui si chiudeva la porta di casa (patibulum).
Subito dopo, così immobilizzato il condannato veniva condotto nelle strade del villaggio o del quartiere dove egli viveva e ad alta voce era costretto a confessare il suo delitto, mentre la folla al suo passaggio lo poteva coprire di insulti, di sputi e di percosse. E, in molti casi, la condanna alla Crocifissione prevedeva anche la fustigazione, la quale spesso lungo questo percorso portava direttamente alla morte. Se, invece, il condannato riusciva a resisteva fino al luogo della crocifissione (di solito più distante dalle mura della città; a Roma a Campo Marzio), veniva sollevato sul palo delle esecuzioni, in modo tale che con il furca o il patibulum, che aveva già fissato alle spalle, andavano a formare una croce. A questo punto, il corpo veniva, completamente, immobilizzato con l’impiego delle corde o di chiodi. A tale proposito, l’iconografia della Religione Cristiana mette in evidenza le palme delle due mani trafitte da un chiodo e i piedi, invece, sovrapposti l’uno sull’altro, trapassati da un solo chiodo.
Mentre studi di epoca recente indicano, invece, che le braccia fossero immobilizzate da chiodi inflitti nei polsi. Invece, per quanto riguarda all’immobilizzazione dei piedi, una scoperta fatta alcuni anni or sono, in Israele, fa ritenere che almeno in qualche caso i piedi non venissero immobilizzati uno sull’altro con un solo chiodo e ognuno era fissato sul lato esterno del legno della croce con un chiodo (il quale trapassava il tarso) e una tavoletta di legno. La ricostruzione venne stata fatta da due archeologi israeliani, Joseph Zias e Eliezer Sekeles che, nel 1985, esaminarono i resti ossei di un uomo di nome Jonathan crocifisso a Gerusalemme nel primo secolo dopo Cristo.
In questa orribile posizione, sospeso sulla croce il condannato andava incontro a una morte atroce per sfinimento o soffocamento prodotto dal peso del corpo sulla muscolatura del torace. Quando il condannato non dava più segni di vita, i soldati di guardia ne verificavano la morte colpendolo con una lancia o con il fuoco e del fumo, oppure procurandogli delle fratture alle gambe. Dopo essersi resi conto del l’avvenuto decesso, abbandonavano il cadavere sotto l’azione del sole cocente, degli uccelli rapaci e dei cani, in quanto trattandosi quasi sempre di schiavi, non si presentava nessuno a richiederlo.
di Filippo Scolareci