Nel suo Testamento, San Francesco scrive: “Quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; E il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia”. La misericordia non è belle parole in aria, ma un’esperienza che dura. Basta menzionare la parabola del buon samaritano. Nei dettagli di questa parabola, notiamo che questo samaritano, praticamente, non si ferma mai se prima non si accerta che l’uomo caduto in sventura non si sia ripreso al massimo. Racconta Gesù: “Ma un Samaritano, che era in viaggio, giunse presso di lui e, vedendolo, ne ebbe pietà; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe versandovi sopra olio e vino, poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: ‘Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno’”(Lu 10,33-35).
Anche San Francesco fece questa bellissima esperienza, e non una volta, coi lebbrosi. Infatti, San Bonaventura, nella sua Leggenda Maggiore sulla vita di San Francesco, descrive così il comportamento del santo nei confronti dei lebbrosi: “Poi, amante di ogni forma d’umiltà, si trasferì presso i lebbrosi, restando con loro e servendo a loro tutti con somma cura. Lavava loro i piedi, fasciava le piaghe, toglieva dalle piaghe la marcia e le ripuliva dalla purulenza. Baciava anche, spinto da ammirevole devozione, le loro piaghe incancrenite, lui che sarebbe ben presto diventato il buon samaritano del Vangelo. Per questo motivo, il Signore gli concesse grande potenza e meravigliosa efficacia nel guarire in modo meraviglioso le malattie dello spirito e del corpo” (Cap. 2,6).
Un’altra nota di maggior interesse tra Francesco e i lebbrosi la troviamo nella Compilazione di Assisi. Qui, Francesco volle i suoi frati e quelli che volevano seguirlo nella sua totale consacrazione a Dio, di servire i lebbrosi. Per questo, nei primordi, quando i frati presero a moltiplicarsi, volle che abitassero nei lazzaretti a servizio dei lebbrosi. A quel tempo, quando nobili e popolani si presentavano come postulanti, fra le altre cose che venivano loro annunziate, si diceva ch’era necessario servire ai lebbrosi e stabilirsi nei lazzaretti (N.102). Ma chi è il lebbroso per noi oggi? Le persone da evitare, che non abbiamo il coraggio di vederle in faccia, la persona che preferiamo stia lontana da noi, quello che ci ricorda che la vita terrena è veramente temporanea, colui che ci imbarazza perché è diverso da noi come persone malate mentalmente, quello che può farci del male, lui che ci chiede sempre ma non ci da nulla in cambio, colui che ostacola i nostri progetti e rovina i nostri sogni. Il solo pensiero di questo lebbroso mi fa star male. E io come mi comporto davanti a lui e lei? Lo tengo a distanza? O lo avvicino?
Nella sua prima enciclica come pontefice che parla sull’amore cristiano, Deus Caritas Est, ai numeri 34 e 35, Papa Benedetto XVI ci dà queste bellissime osservazioni su come essere vicini al lebbroso nella nostra vita. Dice: “San Paolo nel suo inno alla carità (cfr 1 Cor 13) ci insegna che la carità è sempre più che semplice attività: ‘Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova” (v. 3). “L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona.
Questo giusto modo di servire rende l’operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all’altro, per quanto misera possa essere sul momento la sua situazione. Cristo ha preso l’ultimo posto nel mondo — la croce — e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta. Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia. Quanto più uno s’adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo”. “Egli riconosce, infatti, di agire non in base a una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte, l’eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà, farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento, l’amore del Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14). L’incontro con chi soffre veramente ci fa liberi di amare incondizionatamente, come Gesu!
di Fra Mario Attard