Il significato etimologico della parola educazione deriva dal verbo latino ‘educere’ ovvero ‘tirar fuori ciò che è dentro’. Ma cosa significa tirare fuori ciò che è dentro? A tal proposito, è doveroso ricordare il pensiero della prima donna medico dei primi del ‘900, Maria Montessori, e il suo famoso ‘Metodo Montessori’ tanto caro agli educatori e pedagogisti di ogni generazione, una metodica che nasce dalle osservazioni che la stessa conduce negli anni dei suoi studi e che enfatizza un intervento educativo, poi, in seguito adottato in tutte le scuole, che potesse sviluppare il potenziale dei bimbi rispettando la loro natura, favorendo l’indipendenza, la spontaneità e promuovendo l’individualità e lo sviluppo psicologico. Essa diceva che ciò che è nell’ambiente circostante è ‘carne mentale’ e, poiché la mente dei bimbi è ‘una mente assorbente’, tutti gli stimoli sensoriali presenti nell’ambiente in cui il bimbo cresce vengono assimilati. I bambini dell’epoca montessoriana, ovviamente, erano creature succubi di una società che li voleva ‘zitti e fermi’, ma osservando alcune transazioni di alcuni genitori di oggi (molti) con i propri figli, sembra che le cose non siano cambiate da allora.
Molti studiosi del comportamento e dello sviluppo hanno dedicato gran parte dei loro studi all’importanza delle figure significative di attaccamento e all’intervento dei genitori rispetto alle influenze di queste variabili intorno alla strutturazione e organizzazione della personalità. Già, agli inizi del ‘900, un grande psicoanalista Sigmund Freud sosteneva che i primi tre anni di vita del bambino sono importanti e determinanti in relazione all’organizzazione della personalità e in una sua opera, Tre saggi sullo sviluppo sessuale (1905), peraltro, molto criticata in ambito scientifico, poiché Freud riconosceva una sessualità al bambino non intesa come mera attività genitale dell’adulto, ma come caratteristica peculiare di un processo evolutivo dell’energia psichica e, dunque, egli mette in evidenza come un intervento repressivo e punitivo di un genitore in una particolare fase (orale, anale, fallica) risulterebbe inadeguato, favorendo un blocco (regressione o fissazione) proprio in quella fase in cui avviene l’intervento punitivo. Una grande donna di scienza, Rita Levi Montalcini, in coerenza con il pensiero freudiano, ma alla luce dei recenti studi sulla plasticità cerebrale, sosteneva fermamente che la personalità si forma nei primi tre anni di vita, ella diceva parafrasando le sue parole “È una legge di una scienza che si chiama epigenetica, ovvero, il risultato del dialogo tra il nostro patrimonio genetico e l’ambiente in cui viviamo e cresciamo”.
Eh già, l’ambiente in cui viviamo e cresciamo forma e costruisce il nostro modo di essere al mondo e di vedere il mondo. Il famoso psicologo John Bowlby, tanto noto a noi psicologi, disse che le prime relazioni che il bambino costruisce con le figure significative sono il prototipo delle relazioni future, la madre attraverso la sua modalità di regolazione delle emozioni e del tipo di attaccamento, conduce il proprio figlio alla scoperta del mondo e delle relazioni. In virtù di queste prime osservazioni, lo stile educativo, insieme al concorso di altre variabili, lo stile di attaccamento, il patrimonio genetico, è parte integrante di quel lungo processo di strutturazione, di definizione della personalità e sviluppo psicologico. Purtroppo, oggi si assiste, spesso, all’opera di distruzione di tutti questi begli studi sopra citati e ricerche che si basano su dati empirici e non sono semplici teorie. La promozione dell’individualità, rispettando la natura del bambino, presuppone un intervento senza repressioni, obbligazioni, punizioni che, si badi bene, la punizione non fa estinguere un comportamento, ma lo fa cessare solo nel momento in cui si elargisce la punizione per, poi, ricomparire a tempo debito; tale metodica inadeguata crea, nel bambino, solo un’immensa ansia e angoscia che conduce alla paura del genitore, banditi “gli schiaffi sono come il pane”, ma cosa vuol dire!!??
La letteratura psicologica e psichiatrica è ricca di ampi studi e ricerche, insieme agli studi di Freud, di Bowbly, e potrei citare una moltitudine di studiosi psicologi che si dedicarono a individuare le cause di eventuali disturbi, tanti, troppi. Ma cosa c’entra lo stile educativo con i disturbi? C’entra eccome! In una società dove il consumismo è d’obbligo, dove l’apparenza e l’apparire regnano sovrani, altrimenti, ci si vergogna e si è ‘out’, insieme ancora per alcuni genitori a una concezione ‘vecchia’, che distingue il genere maschile dal genere femminile in base alla forza fisica e cioè l’uomo è forte e può, la donna è debole e frignona, insieme, anche, a quelle madri che ‘iperproteggono’ e non lasciano respirare i propri figli, soffocando la loro autonomia, suonano come una sorta di lavaggio di cervello per ottenere l’approvazione, conferme e accettazione da parte degli altri per quello che si possiede (dai vestiti firmati, all’apparire in un certo modo) e non, piuttosto, per ciò che, invece, si ‘è’, dare tutto e subito, essere presenti materialmente ed essere assenti affettivamente ed emotivamente, invece di incoraggiare e renderli sicuri si tende a scoraggiarli e a evitare di affrontare e a esplorare il mondo circostante. I danni che tali stili educativi creano alla formazione (compresa strutturazione della personalità) del proprio figlio potranno essere, a breve e a lungo termine, alla luce di attuali ricerche, in quanto molti bambini e adolescenti vanno dallo psicologo, ma i genitori si chiedono il perché? Non saranno solo forse mere proiezioni e loro desideri che i figli devono, a tutti i costi, esaudire al posto loro?
di Barbara Cortimiglia