Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’Isola si chiamava Malta

Quando sento queste bellissime parole, esse riecheggiano nelle mie orecchie e, perlopiù, benedicono la chiesa ogni 10 febbraio dell’anno, cioè la solennità del naufragio di San Paolo a Malta, lacrime di grande gioia e tremenda emozione colmano i miei occhi maltesi. Che bello quando la mia Patria si è menzionata nel libro dei libri, la Bibbia! L’Isola su cui proprio parla San Luca, negli Atti degli Apostoli, è, sicuramente, la mia amatissima terra di Malta. Infatti, la parola originale greca che si trova negli Atti è Μελιτη, Meliti. Secondo tanti biblisti seri questa parola perfettamente coincide alla nostra Malta. Oggi, tutti sono convinti che il posto del naufragio dell’apostolo delle genti è, indubbiamente, Malta, l’Isola vicina e carissima amica della bella Sicilia. Dunque, non ha più senso confondere Meliti con Meleda, l’isoletta al nord dell’Adriatico.

Il biblista Stock chiarisce questo punto, così: “Sulla costa settentrionale di Malta c’è un promontorio che si chiama Punta di Koura, dal quale un bastimento avviato nella direzione di quello di Paolo, dovrebbe passare. La riva è troppo bassa e non la si può scorgere di notte; ma il luogo è ben noto per i flutti che vi si spezzano contro. Appena lo si gira, codesto promontorio, si trova una profondità di venti braccia; e un po’ più in là, di quindici braccia. Appunto, lì dove la videro i compagni di Paolo Atti 27:39, c’è una spiaggia coperta di ciottoli; e allo stretto canale, che è fra l’isola di Salmonetta e la terra ferma, par proprio di vedere una lingua di terra che ha il mare d’ambo i lati’ Atti 27:41. La identificazione è completa in ogni dettaglio. La baia fra la Punta di Koura e Salmonetta si chiama anche oggi Baia di San Paolo”. O, in maltese, la chiamiamo San Pawl il-Baħar (San Paolo al Mare).

Quando San Giovanni Paolo II ha visitato il nostro Paese per la seconda volta, esattamente dal martedì 8 fino al mercoledì 9 maggio 2001, nell’ultima tappa del suo pellegrinaggio che lo portò in Grecia, Siria e poi da noi a Malta, sulle orme del grandissimo apostolo Paolo, sottolineò la drammaticità dell’arrivo di San Paolo, ma anche la grazia che noi maltesi abbiamo ricevuto. “L’arrivo dell’Apostolo sulle vostre spiagge fu drammatico. San Luca ci ha narrato il viaggio difficoltoso e la disperazione dell’equipaggio e dei passeggeri quando la nave si arenò e cominciò ad andare in pezzi (cfr At 27, 39-44). Abbiamo udito la loro asserzione: ‘Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta’ (At 28, 1). Grazie alla divina provvidenza Malta ricevette il Vangelo nei primi giorni del cristianesimo. ‘Ringrazino il Signore per la sua misericordia, per i suoi prodigi a favore degli uomini (Sal 107, 15)” (no. 1).

Come enfatizzò il santo pontefice polacco più tardi nella sua omelia: “Malta possiede un’eredità cristiana magnifica della quale andate giustamente fieri, ma quell’eredità è anche un dono che implica una grande responsabilità (cfr Lc 12, 48)” (no. 2). Effettivamente, quella responsabilità risplende quando si legge l’ottimo certificato che il narratore degli Atti, San Luca, ha fatto sui maltesi di quel tempo. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo (Atti 28:2). Anche San Giovanni Crisostomo ci ha dato un bel certificato nelle sue omelie sugli Atti degli Apostoli. Infatti, il Crisostomo scrisse: “Gli abitanti dell’Isola ci insegnano come deve essere il comportamento giusto. Non sapevano chi erano quelli che si erano naufragati. Ma capivano bene che erano tutti essere umani. Ecco perché li hanno accolti con rara umanità … È evidente quelli che lo hanno (a Paolo) accolto così, hanno anche accolto la parola che egli ha proclamato. Non poteva dialogare con loro tre mesi se non l’ho hanno creduto. Da questo, uno nota che erano tanti quelli che hanno creduto”.

Rispettivamente se noi siamo maltesi, italiani o gente di qualunque nazione sotto il cielo, se noi diciamo di essere cristiani tutti abbiamo la responsabilità di vivere questa fede autenticamente. Ovviamente, autenticamente significa anche praticarla nelle opere di misericordia, come gli abitanti dell’Isola. Nell’udienza generale del 27 aprile 2016, Papa Francesco ci insegna come il cuore della fede cristiana è la compassione per quelli che soffrono. “Eppure non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo. Non dimentichiamolo mai: di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori. Ignorare la sofferenza dell’uomo, cosa significa? Significa ignorare Dio! Se io non mi avvicino a quell’uomo, a quella donna, a quel bambino, a quell’anziano o a quell’anziana che soffre, non mi avvicino a Dio”. Signore aiutami a lasciare queste parole di San Paolo trasformano completamente la mia vita: Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene (Rm 12:20-21). Amen.

di Fra Mario Attard