All’alba, la nobile città di Messina veniva distrutta dal terremoto

Alle 05,21 del mattino del 111 del 1908, gli abitanti, immersi nel sonno, furono svegliati da un terribile boato. Un sisma di magnitudo 7.1 della scala Richter, cui fece seguito un maremoto, devastò le coste di Messina e Reggio Calabria. Numerosi centri abitati furono cancellati e con essi gli abitanti. Messina subì più di 90.000 perdite umane e la distruzione del 90% dei suoi edifici.

“Al buio fittissimo di quella notte di dolore successe la luce fosca di un giorno maggiormente addolorato. Giorno di paura e di morte!”. “Il sole questa volta non ardì mostrare la sua faccia sul limitar dell’orizzonte, e tu avresti detto pauroso di dover illuminare, sopra due province sfortunate, cose che la notte stessa non avea avuto tenebre abbastanza profonde e durata abbastanza sufficiente, per tenere celate attraverso i secoli. Densissime nuvole di polvere restavano ancora spiegate come un sudario sopra tutto lo Stretto di Messina, ed avvolgendo uomini e cose, lasciavano cadere i lembi di quel manto funereo sopra quanto un giorno prima, un’ora prima, era stato sorriso, era stata vita, era stata ricchezza…” – così si legge nel libro Un duplice flagello, di Giacomo Longo.

Ad uno, a due, a dieci, a cento sbucano i feriti da tutte le macerie ed a carponi si trascinano verso la marina. Si aiutano e si sorreggono a vicenda, cadono e si rialzano, e tra spasimi che non hanno parola e sforzi disperati, e bagnando di sangue ogni pietra, ogni masso, ogni legno che si para davanti, pervengono sempre più estenuati, sempre più decimati, laddove speravano trovare un sollievo, un soccorso…”.

Lungo il Corso Vittorio Emanuele, da Piazza Vittoria fino ai magazzini generali, tra il molo e la palizzata, sulle macerie e sopra i tratti sgombri, convennero nel corso di quella giornata tutti gli avanzi miserandi dell’infelice popolo messinese. Accanto ad un mucchio di cadaveri abbiamo visto dei bambini inconsci di tutto quanto li circondava, trascinarsi alle gonnelle delle mamme, scherzare prima, ridere poi, piangere finalmente e cercar del pane; ed abbiamo visto le mamme col volto soffuso di lagrime e con la fronte improntata a tutte le sofferenze delle proprie anime, perché la fame dei cari figliuoli lacerava senza dubbio con mano atroce i loro cuori addolorati. Presso a costoro venti o trenta feriti si arrotolavano nel proprio sangue, gemevano, cercavano un sorso d’acqua, mormoravano parole impercettibili, morivano…”.

Nella piazzetta del Teatro Vittorio Emanuele, in mezzo a tante rovine e seduta sopra un angolo di muro, vid’io una fanciulla che poteva avere appena quindici anni. Il suo corpo andava coperto di una semplice camicia da notte, e le braccia per metà nude ed incrociate sul petto le davano una espressione indefinita di pietà e di dolcezza… . Seppi più tardi chiamarsi Bianca ed esser seduta sulle rovine della propria casa…”.

In quel terribile terremoto, morì anche mio nonno. Di lui non si trovò il corpo, ma solo un indumento che gli apparteneva. Abitava con la famiglia nella zona del Monte di Pietà ed era uscito per recarsi al lavoro che espletava come maresciallo dei vigili. Tornò indietro, quel mattino, perché aveva dimenticato di baciare i suoi figli che ancora dormivano. La morte lo colse nella zona di Piazza Duomo dove molti palazzi rovinarono. Mio padre, di appena 4 anni, e mio zio Francesco, più piccolo, rimasero orfani e la nonna vedova a soli 23 anni.

di Domenica Timpano