Il nuovo libro della giornalista Romina Gobbo analizza il linguaggio bellico usato dai media per raccontare l’emergenza Covid-19. Scaricabile da Amazon in formato e-Book e cartaceo Siamo in guerra: è il 17 marzo 2020 e il presidente Giuseppe Conte così si esprime nel momento più ‘caldo’ dell’epidemia da Covid-19 che ha colpito il mondo. È il 159esimo anniversario della proclamazione dell’Unità nazionale, quindi tale frase assume anche un valore simbolico. Il post di Conte non lascia spazio a dubbi: serve un’unione nazionale. Il presidente francese, Emmanuel Macron, lo aveva preceduto di qualche giorno e, nel suo discorso alla Nazione del 12 marzo, aveva scandito per ben sette volte: “Nous sommes en guerre”. Ormai, la legittimazione del linguaggio bellico era avvenuta. Dal presidente statunitense, Donald Trump, al governatore di New York, Andrew Cuomo, passando per il primo ministro inglese, Boris Johnson: per tutti si trattava di trovare le ‘armi’ per ‘combattere’ e vincere il nuovo ‘nemico’. I titoli dei media di quel primo periodo si sono riempiti di ‘assedi’, ‘artiglieria’, ‘trincee’, ‘task force’ e quant’altro.
La domanda che sottende al libro è se sia stato utilizzato un linguaggio militare a causa di un impoverimento del lessico italiano, pertanto, quando si verifica un evento eccezionale, si devono prendere a prestito termini che appartengono solitamente ad altri registri perché non ne esistono di specifici oppure se alla base c’era una volontà di creare un certo tipo di tensione, se non addirittura di panico. Di sicuro, c’è che da sempre nella storia le epidemie sono state considerate un ‘nemico da combattere’. E sempre hanno perpetrato uno stigma ai danni di quanti si ritenevano essere i divulgatori. Oggi, il ‘cinese con la tosse’, ieri gli ‘untori’ manzoniani. Pandemia mediatica? Infodemia? L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha parlato di “sovrabbondanza di informazioni, alcune precise, altre no”, e questo – ha continuato – “rende difficile per le persone trovare fonti attendibili e una guida affidabile al momento del bisogno”. Ma perché questa narrazione mutuata dall’ambiente militare? Il libro non ha la presunzione di dare risposte anche perché davvero bisognerebbe andare a verificare testata per testata se c’erano “ordini di scuderia”, ma di stimolare una riflessione in ambito giornalistico e non solo, di accendere un dibattito su come certi fatti vengono narrati dai media.
Pensiamo a quanto male ha fatto quel titolo di Libero ‘Bastardi islamici’, per quanto attiene ai rapporti con la comunità musulmana. Il giornalista, davvero, deve chiedersi che tipo di professionista vuole essere. Uno che crea il panico o uno che approfondisce? Uno che predilige la forma o il contenuto? Non si tratta di scrivere ‘buone notizie’, ma di come si scrivono le notizie, di come vengono verificate le fonti… La credibilità della professione giornalistica si gioca su questo. D’altra parte, il libro non è solo per gli operatori dell’informazione, anzi. Anche il lettore deve sentirsi chiamato in causa, deve sentirsi sollecitato a esercitare il proprio spirito critico. Perché l’informazione è affare di tutti.
Note sull’autrice
Romina Gobbo è una giornalista freelance. Si occupa da anni di aree di crisi, in particolare, Africa sub-sahariana e Medio Oriente, con frequenti viaggi in loco.