Virotopia è il titolo del libro scritto da Francesco Tigani, interamente dedicato alla pandemia da Covid-19 che è ancora ufficialmente in corso. Si tratta, quindi, di un instant book, di un breve libello (consta di una sessantina di pagine), nato sulla scorta degli eventi più recenti e dall’urgenza di raccontarli o meglio di ponderarli, dal momento che il tessuto su cui si dipana e il lessico che utilizza è quello della filosofia. È, però, un libro anomalo, perché rinuncia scientemente a fornire un quadro complessivo sul periodo per offrine uno parziale, scandito in sei saggi corrispondenti a ciascuna delle sei settimane di lockdown. È quasi un diario, insomma: un ‘diario minimo’ – per dirla con Umberto Eco – concepito per indurre il lettore a riflettere su come sia stata vissuta l’emergenza in Italia dopo il fatidico Dpcm del 9 marzo scorso.
La scelta dell’autore – che è oltretutto uno studioso di utopie e distopie – di partire dall’analogia fra i progetti di rinnovamento statali e le radicali delibere assunte dal Governo in questo frangente è, dunque, scontata. Il primo saggio si focalizza allora sul tema dell’‘ospitalizzazione della società’ – con evidenti richiami all’opera di Michel Foucault – e ne mostra le implicazioni in materia di controllo e di libertà, proponendo un’interessante distinzione fra i concetti di ‘tutela’ e ‘cautela’. Il secondo affronta, invece, la delicata questione dell’osservanza delle leggi o del loro necessario rifiuto, con articolati riferimenti alla legge dell’entropia e all’antico principio della disobbedienza civile. Il terzo e il quarto si soffermano a delineare dei drammatici collegamenti con la storia, evocando due figure che sarebbe erroneo relegare nel passato: l’untore e il sicofante, il seminatore di contagio e il delatore occasionale o professionista.
C’è anche spazio per una rapida, ma intensa considerazione sulla crisi dei valori in parte prodotta e in parte accelerata (giacché, preesistente) dal Coronavirus: una crisi per la quale Tigani conia un nuovo termine, ‘paucismo’ (dal latino paucus, ‘poco’), forse ben peggiore del nichilismo che ha caratterizzato con forza gli ultimi due secoli, in quanto all’‘immensità del nulla, totale e avvolgente’ sostituisce appunto ‘il poco, il minimo, lo stretto indispensabile’. Si arriva, così, al quinto saggio che squaderna un drastico giudizio sulla politica, annichilita da un morbo invisibile (ironicamente chiamato ‘morbo di Loch Ness’) e ridotta – come il gatto del paradosso di Schrödinger – a una creatura che potrebbe essere al contempo viva o morta. Il testo conclusivo prende spunto da un poema secentesco sull’incendio di Londra del 1666, l’Annus mirabilis, di John Dryden, riletto alla luce del Covid-19. Qui l’autore si domanda se, persino dalla tragedia appena consumata, si possa trarre la speranza di una rinascita per il futuro, come successe proprio nel 1666, quando Londra venne ricostruita sulle proprie macerie ancor più grande e maestosa di prima. La speranza è, tuttavia, stemperata da un’amara citazione brechtiana, da cui si evince quello che sembrerebbe l’incrollabile destino della storia, “dove sono sempre i poveri a rimetterci: che siano fra i vincitori o fra i vinti, è lecito aspettarsi che patiscano ugualmente la fame”.