Così furono salvati i codici greci del San Salvatore di Messina

La città di Messina e il mondo della cultura devono tantissimo a un personaggio ormai dimenticato: Michele Carlo Caputo, coraggioso direttore della Biblioteca Universitaria di Catania, autore del salvataggio dei codici greci del san Salvatore della R. Biblioteca Universitaria di Messina. Dopo il terribile sisma del 1908, i magazzini librari e le sale destinate al personale e all’utenza – allora situata nella zona del plesso centrale dell’Università – subirono ingentissimi danni. Michele Carlo Caputo, avendo appreso della morte del dott. Arnaldo Sabbatini, responsabile della Biblioteca di Messina, e della sua consorte, Maria Teresa Bari, si precipitò nella Città dello Stretto con l’obiettivo di salvare il prezioso patrimonio librario e, in particolare, i codici del San Salvatore. In una relazione, pubblicata nella Rivista Zentralblatt fur bibliothekswesen, descrive il suo operato.

Una volta giunto a Messina, da lui definita ‘Città del dolore’, il sette gennaio del 1909, accompagnato dal prof. Guido Manacorda, dopo aver ottenuto tutte le autorizzazioni amministrative, si recò ai magazzini librari di Via dei Verdi accompagnato da dieci soldati dell’81° in fanteria, facendosi strada tra le macerie di una città completamente prostrata. Nelle sue parole, lo sgomento: “Tutto quello che si è scritto, tutto quello che si è narrato, non è che una pallida, scolorita rifrazione del vero”. La biblioteca aveva subito gravi danni: i muri erano pieni di crepe, i soffitti sfondati, circostanza che era stata devastante per le raccolte librarie a causa delle piogge torrenziali che si erano abbattute su Messina nei giorni immediatamente successivi al terremoto. Caputo, aiutato da Vigili del Fuoco bolognesi che avevano puntellato, in qualche modo, le macerie, entrò nella sala quarta della biblioteca riuscendo a salvare gli incunaboli e le edizioni rare che furono deposte in grandi casse e collocate nell’androne dell’università, a cura del tenente Gobbi.

Poco o nulla si poté fare per la direzione e il salone di lettura, le cui macerie raggiungevano un’altezza di circa tre metri. L’ingresso era stato ostruito da una trave, sulla quale si ammassavano tutte le altre macerie. Tutte le pareti laterali erano oscillanti, cosicché gli ingegneri raccomandarono di evitare qualsiasi movimento o contraccolpo. Un problema non indifferente fu quello di trovare un luogo dove conservare tutto il materiale rinvenuto. In un primo momento, si pensò alla costruzione di una grande baracca nella quale deporre tutti i materiali e gli arredi recuperati. Le prospettive di una spesa ingente, però, per un ricovero provvisorio e che non avrebbe risolto il problema dell’utilizzazione a favore degli studiosi, non venne approvata. Si optò, allora, di lasciare tutto il materiale proveniente dai depositi distrutti, nelle sale terza e quinta della biblioteca, cheb sebbene danneggiate dalle continue scosse, davano una minima garanzia di sicurezza.

Altri reperti furono collocati in due locali terreni di via dei Verdi, già sedi di alcuni istituti scientifici. Il trasporto del materiale fu ostacolato dalle condizioni climatiche avverse. Violenti temporali si alternavano alle scosse telluriche. Il lavoro ostinato, però, di quegli operatori fece sì che si riuscissero a svuotare le sale danneggiate e irrecuperabili. Scavando a mani nude, furono salvati anche il casellario delle riviste con tutti fascicoli, anche se sporchi di fango. Il lavoro proseguì per diciannove giorni. Così, fu realizzato il salvataggio della Reale Biblioteca Universitaria di Messina, un intervento coraggioso che rende, ancora oggi, fruibile all’utente un patrimonio librario di una ricchezza inestimabile che, senza l’entusiasmo temerario di Caputo, sprezzante del pericolo, Manacorda e di tanti anonimi soldati, sarebbe andato disperso.

di Pina Asta