Gabriele Lavia porta in scena, con successo di pubblico, ‘I Giganti della montagna’ – testamento poetico – di Luigi Pirandello. Testo incompiuto, ultima fatica del drammaturgo agrigentino, affronta la difficile problematica della funzione del teatro e della poesia in tempi moderni. ‘I giganti’ sempre più spesso allenano i muscoli, edificano apparati strutturali e burocratici, si arricchiscono, appaiono e sovrastano gli uomini, il teatro, la spiritualità, l’essenza. Essi si ergono sulla montagna, ostruiscono la visuale, la prospettiva, minacciano l’uomo e la sua natura umana e spirituale con la propria grettezza. Più lontano, si erge il teatro, rappresentato da una scenografia che lo stesso Lavia ha fortemente voluto così: diroccata, spezzata, violata e abbandonata. Lì si consuma il dramma dei personaggi pirandelliani che – a loro volta – assistono al patema umano di chi è e potrà essere solo immedesimandosi nella rappresentazione. È il teatro che rivela ciò che l’uomo mistifica di sé. Vedersi rappresentati e riconoscersi significa liberare lo spirito racchiuso nella forma, significa essere infinitamente se stessi.
La missione della rappresentazione teatrale si consuma tra una moltitudine di uomini che vivono nell’inganno, dietro la maschera dell’agire, del fare, del non essere e del non pensare. Cotrone-Pirandello – interpretato magistralmente da Lavia – guarda agli spettatori, alla massa, alla coscienza collettiva per lanciare un ultimo estremo messaggio: la consapevolezza e l’essenza passano solo attraverso il teatro e la poesia. Strumento della salvezza è la contessa Ilse, interpretata da Federica de Martino, che si ostina – nonostante gli insuccessi, le difficoltà economiche e morali – a compiere la sua missione: portare in scena La favola del figlio cambiato, il testamento spirituale di un poeta suicida, che le ha affidato la sua ultima opera. Intorno a lei si agitano figuranti, attori, spiriti inquieti che premono, spingono per rappresentare, per fare teatro. Una compagnia di 23 attori che si aggrappano ad una realtà parallela, che non rinunciano ostinatamente al sogno di rappresentare gli uomini: i loro desideri, i loro valori, le loro meschinità. Tra la moltitudine – milioni di maschere e pochissimi volti – commenta Cotrone-Pirandello, ma a teatro le maschere cadono e l’uomo si rivela all’uomo, lo spettatore si immedesima e riscopre la sua natura umana, oltre la forma che lo costringe e limita, oltre la maschera che cela e impedisce la comunicazione con gli altri, che crea equivoci e distanza.
Lavia accoglie il testamento di Pirandello e – seppur rispettosissimo del testo – lo attualizza e fa suo un messaggio necessario oggi più che mai: solo la sostanza ci salverà dall’apparenza, solo il sogno e il teatro ci aiuteranno a conoscere la natura umana e a dialogare disarmati ed empatici con gli altri. Ma basterà la resilienza di pochi a fermare la minaccia che viene dalla montagna? La rappresentazione – orfana del suo ultimo atto a causa della sopraggiunta morte dell’autore – non trova una conclusione nemmeno sul palco. In ultimo, risuona una frase che non è cesura ma che apre al dibattito e alle problematiche sociali del nostro tempo: “Io ho paura, ho paura”. La paura di cui parla Pirandello è che il materialismo uccida il teatro e che l’uomo perda la sua umanità. Constata Cotrone-Pirandello: “Mi sono fatto turco per il fallimento della poesia della cristianità”. Il teatro rischia di fallire la sua missione più autentica e per portarla avanti occorre farsi turco-straniero, occorre essere una voce fuori dal coro, una voce incontaminata e pura. Nel teatro bisogna crederci, come ci credono i bambini: fanno il gioco, poi ci credono, poi lo vivono.
Attraverso il testo di Pirandello, Lavia difende il teatro della tradizione e della cultura, legge i pericoli del nostro tempo e della società e compie un atto di titanica resistenza: mette la società davanti allo specchio, la obbliga a guardarsi; è questa dunque la missione da compiere, il teatro è necessario, grida Cotrone sul palco: “Noi dobbiamo restare qua!”. In questa comunicazione di intenti, è ribadita tutta la forza di Lavia e del teatro. L’arte rivendica la sua missione, una missione che è necessaria oggi più che mai, che è un atto di ferma volontà: occorre esserci per pensare, per sognare ancora. Bisogna cercare l’infinito che è dentro di noi, tornare all’impegno, tornare al teatro. Nessuna paura, quindi, per gli spettatori del Teatro della Pergola di Firenze, dove l’ultimo vero gigante a primeggiare è Lavia, che coraggiosamente si ostina a portare in scena un teatro che è tradizione-innovativa, forza poetica e di autentico pensiero.
di Tiziana Santoro