Il mito del cacciatore Orione

A lato del campanile del duomo di Messina sorge il monumentale Fonte Orione, un leggendario eroe, che gli antichi messinesi ritenevano il costruttore del porto e di altre fabbriche della città. Lo si diceva venuto al tempo della civiltà Minoica, per sgominare i pirati del Mar dello Stretto, chiamato dal sicano Zanclo, re di questi luoghi, al quale era giunta fama delle sue opere realizzate altrove. La mitologia classica lo presenta sotto diverse versioni. Una di esse racconta che Zeus, per sdebitarsi dell’ospitalità datagli da un povero contadino senza figli, gli suggerì di seppellire nel giardino una pelle di giovenca e di orinarle dentro. Il contadino, pur meravigliato, eseguì e dopo alcuni mesi s’accorse che in quel punto, sotto terra, si muoveva qualcosa. Estrasse la pelle e dentro vi trovò un bambino al quale dette il nome di Orione. Cresciuto in età, Orione divenne un gigante, camminava nel mare, anche, dove era più profondo e con la testa toccava il cielo. Superbo ed orgoglioso, fin da giovanissimo si dedicò alla caccia e divenne un formidabile cacciatore, tanto da voler rivaleggiare con Artemide.

La dea, forse perché innamorata e tradita, forse perché sfidata e vinta, e, quindi, offesa nella sua suscettibilità, un giorno lo colpì con una freccia e lo uccise. Il fedele Sirio ululò per giorni accanto al cadavere di Orione, finché Zeus li trasformò entrambi in due stelle del cielo: la prima, tramontando in autunno, annunzia piogge e bufere; la seconda, invece, brilla nitida e sicura nella calura delle notti estive. La scienza astronomica ha dato il suo nome ad una costellazione del cielo australe, a sud del Toro e dei Gemelli. Una seconda versione lo vuole, invece, figlio gigante di Nettuno e di Brilla di Minos, educato da Atlante che ne fece un formidabile cacciatore ed un ottimo navigante. La sua armatura era tutta d’oro e la sua spada era fatta di metallo, così fine che da lontano luccicava come saettante folgore. Nei suoi prolungati periodi di caccia era, sempre, accompagnato da un cane latrante, il fido Sirio, e con esso, per selve e balze, senza mai riposo, inseguiva belve e cervi con astuzia e bravura. Ma Orione ambiva cacciare non soltanto animali. Un giorno, preso da ebbrezza, si diede ad inseguire e a dardeggiare le figlie del suo benemerito educatore Atlante, le sette timide, ma belle sorelle Iadi e, quando queste morirono, la stessa sorte toccò, anche, alle altre loro sette sorelle Pleiadi (Maia, Elettra, Taigete, Asterope, Alcione, Celeno e Merope).

Allora Zeus, da loro invocato, per sottrarle ai suoi insensati dardi, le tramutò in stelle del cielo. La scienza astronomica diede i nomi di Iadi e Pleiadi a due ammassi stellari situati nella costellazione del Toro, che, dalla Terra dista solo 500 anni luce. Quando Atlante seppe della tragica morte delle figlie, chiese a Zeus di essere vendicato. Orione, avuto sentore dei guai cui stava per andare incontro, partì in giro per il mondo e, dopo aver molto peregrinato, giunse in Libia e in Egitto, dove imparò la cognizione dei movimenti celesti, per poi divulgarli in ogni luogo. Passato qualche tempo, Atlante si rese reo di aver tentato la scalata al cielo, assieme ad altri Titani. Zeus, perciò, lo punì e lo condannò a sorreggere, con le mani alzate, la volta celeste. Fu, forse, in questo tempo che Orione, sentendosi, ormai, al sicuro, venne in Zancle. Artemide, quando lo vide, se ne innamorò e lo pregò di costruirle un tempio sulle rive del Peloro (dove, ora, c’è la chiesa di Santa Maria delle Grotte). Lo nominò, anche, suo custode ed assistente di quei fidati cacciatori, che, prima di intraprendere una spedizione venatoria, in ore antelucane, si recavano, in quel tempio, per riverire la dea e venerarla.

La pace tra i due, però, non durò a lungo. Urtatasi con lui, perché vinta al gioco del disco o perché tradita al gioco dell’amore, la dea lo fece mordere da uno scorpione (o lo colpì lei stessa con una freccia avvelenata). Zeus, commosso per la brutta fine di quel figlio monello, lo mutò in una costellazione del cielo. Ma Orione, anche, da morto, non perse il vizio d’inseguire le figlie di Atlante. E, perciò, noi, in certe notti tranquille, lo vediamo, ancora, inseguire, con la sua viva ed incalzante luce, nel cielo che albeggia, le timide sorelle Pleiadi e Iadi e le costringe a tuffarsi nel mar di ponente. Ma qualunque sia la vera vicenda di questo eroe, la leggenda lo vuole restauratore e costruttore del porto e di molte fabbriche zanclee, sicché i messinesi, a maggior gloria della loro genesi, vollero, anche, ricordarlo nel marmo, per tramandare ai posteri il ricordo della loro semidivina discendenza.

di Armando Russo