L’inizio del Risorgimento Italiano a Messina

Il I settembre del 1847 la “Città del Peloro” assunse un atteggiamento consapevole di una scelta politica che si andava maturando fin dal 1821, quando la presenza della Carboneria cominciava a dare i suoi frutti. Il 3 giugno del 1847 i messinesi, che andarono al Duomo per assistere alle celebrazioni religiose in onore della Madonna della Lettera, si accorsero che la statua di bronzo di Ferdinando II di Borbone, sita in Piazza Duomo, aveva le orecchie otturate con la bambagia e gli occhi coperti da una benda. Ciò stava a mostrare la sordità del re di fronte alla richiesta della Costituzione. Le idee romantiche sul valore della libertà si diffondevano, intanto, a Messina ad opera di spiriti illustri quali Giuseppe La Farina, Felice Bisazza, Giovanni Saccano, Carlo Gemelli, attraverso il giornale Lo Spettatore Zancleo tante volte ritirato e ripubblicato con grande preoccupazione del governo borbonico. Patrioti messinesi e calabresi, fra i quali Giovanni Andrea Nesci dei baroni di Santa Rosalia, agivano nascostamente per una sommossa che doveva scoppiare simultaneamente nelle due Città dello Stretto, ma non vi fu pieno accordo.

Ciononostante, il I settembre del 1847, un gruppo di rivoltosi, fra i quali emergeva il nome di Paolo Restuccia di Santo Stefano Briga, decisero di incontrarsi alle ore 16,30, per assaltare di sorpresa gli ufficiai dell’esercito borbonico riuniti per un banchetto all’albergo Vittoria. I rivoltosi che si raccolsero in gran numero, circa 3000, al grido di “Viva la Costituzione, viva il Papa Pio IX”, scesero in piazza. Le truppe borboniche allarmate, uscirono dalla Cittadella ed ebbero ragione dei rivoltosi accerchiandoli. Alcuni caddero in mano della polizia, mentre altri fuggirono, ma il sacerdote Krimi insieme a Giuseppe Sciva e Giuseppe Pulvirenti furono condannati. Gli ultimi due furono giustiziati. Vennero presi provvedimenti restrittivi e, nello stesso tempo, si cercò di calmare il popolo che, tuttavia, dimostrò il proprio malcontento, insultando quei militari che vennero insigniti di una medaglia recante la scritta “Fedeltà” e sul retro “Messina I settembre 1847”. Infatti, il giorno dopo la “festa delle medaglie” si videro girare per la Città due maiali ornati della stessa medaglia. I tempi della rivolta, però, erano maturati e Palermo insorse, trascinando Messina che, dimenticando l’antica rivalità, rispose inneggiando “Indipendenza e Libertà è il solo voto di Messina”.

Il comitato cittadino, intanto, aveva preparato due proclami: “Messinesi, confidate in quel Dio che disperde gli eserciti degli oppressori! Viva la Madonna della Lettera. Viva la Sicilia!”. Nel frattempo, sul monte dei Cappuccini, sul piano di San Gregorio, nei rioni Boccetta, Zaera, Portalegni, si andavano radunando i messinesi armati con quei mezzi di cui potevano usufruire: lance, schioppi e due vecchi cannoni armeggiati da Antonio Lanzetta, da Tino Alessi e dall’eroina popolana Rosa Donato. Questi riuscirono, incredibilmente, tirando a mano un cannoncino, a risolvere favorevolmente le sorti della battaglia. Tutta la popolazione fu sottoposta ad un nutrito bombardamento proveniente dalla Cittadella. “Infami china di cannuneri…” – erano queste le urla. L’assalto popolare del forte di Real Basso contò incredibili atti di valore: Tino Alessi fu pronto ad issare la bandiera tricolore caduta di mano a Giuseppe Bensaja, a cui una cannonata sparata dal forte S. Salvatore aveva staccato la testa; Salvatore Bensaja, il cui figlio era stato ucciso, lo baciò, lo benedisse e continuò a combattere gridando: “Ho altri figli per la Patria. Viva Pio IX. Viva Maria!”.

La lotta era serrata. I messinesi cercavano di espugnare la Cittadella accompagnandosi con i canti di guerra “A palummedda bianca/ pizzula la racina/ Ferdinannu cu la rigina/ va vinnennu pruna a du rana./ Spara lu forti ill’Andria,/ spunna lu Sabbaturi/ la bannera di tri culuri/e vulemu la libbertà”. Sarebbe troppo lungo in questa sede enumerare tutto il movimento politico che si generò dopo questi episodi che rilevarono una certa disorganizzazione, ma è da tenere in conto che dal gennaio al settembre del 1848 le truppe borboniche e gli insorti messinesi si scontrarono in continuazione, mentre la Cittadella vomitava ferro e fuoco sulla popolazione e sull’intera Città. Notte e giorno Messina subì tante di quelle atrocità da destare l’interesse inglese. La S. Pasqua di Resurrezione non apportò alcuna tregua all’infelice situazione che si aggravò il 3 settembre quando le truppe borboniche, guidate dal generale Carlo Filangeri da Satriano, si unirono alle truppe borboniche protette dal bastione Don Blasco. La povera città fu devastata in ogni sua parte ed il 7 settembre Messina dovette arrendersi. Raccontano i testi storici che gli orrori della guerra continuarono fino al 10 settembre. Stragi, spoliazioni, crudeltà, vendette, accompagnarono la Restaurazione borbonica.

La situazione di sfiducia rimase inalterata anche sotto il governo di Francesco II, il re che la credulità popolare bollò di “iettatura” per la sua nascita e la sua vita. “Cicciu nasciu/ so matri muriu/ Cicciu si maritau/ so patri cripau/ ora chi è re,/ viditi chi c’è”. Il seguito della storia del Risorgimento e la conseguente venuta di Garibaldi in Sicilia è storia recente. Marsala accolse i picciotti; Milazzo e Messina inneggiarono l’Eroe dei due mondi. Si accettò il plebiscito, l’annessione al Piemonte accettando Emanuele II di Savoja come sovrano, ma c’è ancora da rispolverare la storia circa la Restaurazione del Regno d’Italia.

di Marisa Frasca Rustica