Carissimo Paolo, il magnifico apostolo del Signore Gesù Cristo, il 9 febbraio, alla vigilia del tuo naufragio sulla nostra amatissima isola di Malta, ti saluto! Ti saluto come mio padre nella fede. Ma ti saluto anche, e forse di più, sia come un confratello nel sacerdozio ministeriale, ma anche come un carissimo amico e fratello. Tu sei il grande Paolo, il Paolo di Tarso! Una favolosa colonna della fede! Credimi Paolo, a volte mi confondo parecchio perché, nella mia coscienza, io dico con grandissima sincerità e coi miei occhi puntanti verso i tuoi: “Il cristianesimo che conosco è di Gesù o il tuo?”. Mamma mia, quanta influenza hai lasciato nella nostra fede! Oggi, scrivendo come te un’epistola – nel mio caso un’epistolina – a un’udienza sconosciuta ma tantissimo presente e, giustamente, esigente, ti pongo una domanda: “Tu veramente mi ami? Veramente mi vuoi bene? Vedo già nei tuoi occhi quel fuoco di un padre che non sa nascondere niente dai suoi figli e figlie. E, nel silenzio, sento la tua risposta retorica il più quanto possibile: Veramente, tu credi che io non ti voglio bene? Mi sono quasi affogato per darti il vangelo?”. E, poi, con la tua consueta sincerità, quasi puntando verso la tua gloria personale, mi dici con la tua solita e massima passione per il dialogo:
“Però, in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E, oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mento. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani” (2 Co 11,21-33). Carissimo padre mio Paolo, la tua umiltà, il tuo coraggio, la tua tenacia, il tuo grande cuore per la Chiesa e per le pecore di Cristo, per la prima volta, mi fanno piangere davvero. E, faccio questo, non perché semplicemente mi emoziono. Ma vedo, soprattutto, come mi ami e mi vuoi il migliore bene nell’universo! Vedo che sei veramente un padre che mi hai generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo (1 Co 4:15)! Grazie papà per il grande cuore che mi insegni di avere per Gesù e per la sua Chiesa. Grazie che, in te, trovo non soltanto un apostolo zelante, un oratore di un’ottima qualità e, principalmente, un favoloso papà che sa amare dal cuore i suoi figli. Grazie Papà!
di Fra Mario Attard