Domenica di Resurrezione – La processione dei Simulacri

Organizzata per iniziativa della Confraternita S.M. della Mercede, in origine San Valentino, la Processione dei Simulacri, è denominata ‘Festa degli Spampanati’, perché si narra che, anticamente, vi partecipassero leggiadre fanciulle provenienti dalle zone limitrofe che, smessi gli abiti invernali, indossavano vestiti in seta floreali, dai colori assai variopinti, dal gusto poco elegante, definito dai tanti “pacchiano”. Da qui, la denominazione. Apparivano, così, agli occhi dei tanti fedeli di quella tradizionale festa di quartiere, le “spampanate” giunte dalla città o dai vari casali. Intorno alla chiesa, si raccoglievano le bancarelle con i venditori di calia (fave, ceci, semenze varie), di biscotti calabresi, di giocattoli, di “giaurrina” (impasto di farina, miele ed essenze aromatiche) che proponevano ad alta voce (“banniavano”), quasi cantilenando, i loro prodotti.

Si narra che la storia di questa processione nella chiesetta della Mercede, nell’odierna via Tommaso Cannizzaro (appena fuori l’antica cinta muraria, lungo l’argine destro del torrente Portalegni, così denominato per via dell’antico Jus lignandi che qui esercitava la Curia Arcivescovile), nasca in tempi assai remoti, se si pensa che già, nel 1644, Placido Samperi ne descriveva, con particolari citazioni, alcuni momenti in quella sua Iconologia della Gloriosa Vergine Maria: “Si vede parimenti, nella cappella sfondata dalla parte destra, una bellissima statua della Madonna della Mercè, la quale si porta in solenne processione dalla Confraternita, da qualche tempo in qua già riconciliata, nella mattina della Pasca di Resurrettione, facendosi il trionfale incontro col Signore Risuscitato, a suon di trombe e di musiche, col festivo rimbombo d’Archibugi, di mortaretti e di Artegliarie nell’ampio piano del Duomo”.

La storia vuole che i simulacri della Madonna SS. della Mercede e di Gesù Cristo risorto giungessero, un tempo, da un’altra chiesa più a monte, situata nella borgata di Gravitelli e che, solo in un secondo momento, a causa di un nubifragio, i fedeli furono costretti a collocarli a riparo nella vicina chiesetta di San Valentino dove vi rimasero e dove, ogni anno da quel momento, la Confraternita di San Valentino avrebbe allestito l’evento per la popolazione di quel quartiere. La chiesa non subì danni durante il terremoto del 1908, anzi, i confrati del tempo ne organizzarono la processione l’anno successivo, nonostante le strade ancora ingombre di rovine. Il corteo accompagnava i due simulacri del Cristo risorto che issava uno stendardo rosso crociato, insieme alla statua della Madonna, ricca di ori e avvolta da un manto ricamato in oro. Un imponente rullo di tamburo annunciava il loro passaggio e, al seguito, un festante corteo di fedeli in gran raccolta. Una volta giunti a piazza Duomo si poteva assistere al momento, sicuramente più toccante ed emozionante di tutto il tragitto: al suono delle campane della cattedrale, agli spari dei mortaretti seguiti dal suono della banda musicale e, dal manto della Madonna rivolta verso il Figlio risorto, venivano liberati stormi di passeri, in segno di festosa liberazione.

L’occasione soleva avere un significato importante, quello di porre fine a dissidi familiari o incomprensioni e, quindi, una celebrazione gioiosa per l’affetto ritrovato. A un’offerta in moneta, era d’uso consegnare una stampa (immaginetta) dei due simulacri con su impressa la significativa frase didascalica: “Unum in passionem, unum in resuretionem”. Alla prima parte della giornata, votata alla consacrazione e alla religiosità, seguiva (come anche oggi avviene) una fase ludica della festa, con l’‘Albero della Cuccagna’ e con ‘U cavadduzzu e l’omu sabbaggiu’, il secondo caratterizzato da una serie di giochi pirotecnici che facevano da sfondo ad un uomo imprigionato all’interno di un’intelaiatura in legno (che rappresentava ‘U Cavadduzzu’) e ad un altro che lo combatteva (da qui il nome dell’‘Omu sabbaggiu’). La particolare giornata, che conserva ancora oggi le caratteristiche di un tempo, ogni anno tiene a raccolta un folto numero di fedeli che assistono al tradizionale momento in religioso silenzio, ammirando i due simulacri al loro re-incontro dinanzi alla chiesa che li ospita ormai da secoli, silenzio rotto solo dal grido di “Viva Maria” che, a più riprese, viene echeggiato dai portatori delle due imponenti statue. Ed è proprio in quel re-incontro, in quel preciso istante, prima del rientro nella chiesa della Mercede, che si raccoglie tutta la magia di quelle due statue che, finalmente e per un attimo, sembrano guardarsi, una posta di fronte all’altra, un attimo questo davvero ricco di dolcezza che riesce a infondere, nei cuori di chi le ammira, una sensazione di pace e di serenità davvero degne di nota.

di Giovanna Lally Famà