Esponente di una generazione di talenti esplosa negli anni Novanta, Monteverde svolge, da ormai oltre trent’anni, un lavoro di elaborazione stilistica e drammaturgica che ne rende il segno unico e riconoscibile. Dopo capolavori come Giulietta e Romeo, in scena per oltre 400 recite e il cui debutto del 1988 determinò l’ascesa stessa del coreografo romano, dopo molti altri successi prodotti dal Balletto di Roma come Otello (la cui ripresa è prevista per il 25 gennaio 2019 con debutto al Teatro Carcano di Milano e a chiusura del Tour a Maggio 2019 al Teatro Quirino), Bolero, Cenerentola, Il Lago dei Cigni ovvero il Canto, ora è la volta di Don Chisciotte. Per la stagione 2019/2020 e per dare inizio ai festeggiamenti dei 60 anni del Balletto di Roma (1960-2020), su invito del direttore artistico, Francesca Magnini, e del direttore generale, Luciano Carratoni, Monteverde torna, quindi, in pista per rileggere in chiave coreografica un’altra pagina della letteratura mondiale: il capolavoro del Siglo de oro.
In questa versione del romanzo spagnolo di Cervantes, il protagonista non smette di incarnare la doppiezza, la ‘confusione’ degli opposti. Al centro della scena, senza un significato presunto univoco, ci sono i rottami di una macchina abbandonata, cavallo da corsa dei nostri giorni, simbolo di un mondo in trasformazione continua. Sempre in bilico tra intenzioni logiche, razionali, ben espresse e azioni assurde, temerarie, Don Chisciotte, con il suo sguardo strabico sulla realtà, conquista la gloria attraverso avventure sconnesse e poco calcolate, imponendo la propria illusione sulla realtà con eroico sprezzo del ridicolo: elemento disturbante e artefice del caos, in fondo ci dimostra che ogni cosa, ogni persona è sempre altro da quello che dice di essere. L’errore è verità e la verità è errore in una società che, soprattutto per un Don Chisciotte poeta, folle, mendicante come quello immaginato da Monteverde, è alla rovescia. Il mondo, del resto – così come la scena – è sempre diverso in base al punto di vista da cui lo guardiamo e la verità si manifesta solo nella libertà di muoversi al suo interno, una libertà incondizionata che testimonia l’inseguimento di un sogno, la ricerca del proprio io bambino, il desiderio infinito di amare.
Fabrizio Monteverde, dopo il Il Lago dei Cigni ovvero il Canto del 2014, dichiarò che questo sarebbe stato il suo ultimo lavoro coreografico e che poi si sarebbe ritirato dalla scena per vivere a Cuba, luogo in cui trovare una nuova dimensione umana e artistica ispiratrice. Così è stato, ma questo Don Chisciotte bizzarro, pazzo cavaliere animato dall’idea di combattere per una giusta causa, lo ha felicemente riportato a far danzare quei valori umani e artistici rappresentati da un protagonista che grottescamente contrasta i privilegi, spesso sordi e ben ovattati, imperscrutabili. Io, Don Chisciotte, rappresenta la rivincita del senso ‘individuale’ contro il dominio dell’astratta ‘universalità’ delle leggi umane: una lotta contro i mulini a vento che diventa metafora della ricerca di un’identità, di quella persa dell’uomo fuori dal tempo, guerriero che combatte una guerra già finita e che si è smarrito nella pazzia dell’hidalgo o nell’ignoranza di Sancho Panza. Quel che la danza testimonia come imprescindibile è che l’azione dell’uomo non trova mai ‘un fine’ e neppure ‘una fine’ in senso assoluto, perché in fondo il bello – dice Don Chisciotte – “sta a impazzire senza motivo!”.